Sebbene sia indiscutibile che la pandemia COVID risparmi in gran parte i bambini, che si ammalano in un numero assai ridotto rispetto agli adulti e con un quadro clinico più lieve, nelle ultime settimane l’attenzione dei pediatri si è rivolta ad un quadro clinico che potrebbe essere associato all’infezione da SARSCoV2, il virus che causa la COVID.
In particolare, a partire dalla seconda metà di aprile alcuni bambini hanno presentato segni e sintomi compatibili con una rara forma di malattia chiamata Kawasaki. Questa è una vasculite (cioè un’infiammazione dei vasi del corpo) che solitamente si manifesta in bambini piccoli, tipicamente sotto i due anni, e che determina come maggior complicanza la formazione di aneurismi coronarici (dilatazione delle vene del cuore).
Meno del 5% delle forme di Kawasaki si presenta con un andamento particolarmente grave che viene denominato Kawasaki Shock Syndrome. Questi bambini spesso richiedono il ricovero in terapia intensiva, per l’insorgenza appunto di uno shock. Buona parte dei bambini visti nelle ultime settimane presentano proprio questo andamento particolare e alcuni di questi bambini sono stati effettivamente ricoverati in terapia intensiva per alcuni giorni. Tutti i bambini hanno comunque ben risposto alle terapie previste per la Kawasaki.
La maggior parte di questi bambini è risultata negativa ai tamponi per il virus SARSCoV, ma molti avevano una storia di contatti ravvicinati con malati, e la particolare incidenza di queste forme in città ad alta prevalenza di COVID (soprattutto le provincie di Brescia e Bergamo) rende l’associazione tra le due malattie possibile. Non è ancora chiaro se i casi che stiamo vedendo siano dei casi di vera e propria sindrome di Kawasaki scatenata dal virus SARSCoV2, o una forma di vasculite sistemica dovuta al virus stesso e che assomiglia alla Kawasaki. In ogni caso i bambini di cui abbiamo notizie sono molto pochi, circa una trentina, e se precocemente identificati rispondono bene alle terapie impostate. E’ quindi ingiustificato un eccessivo allarmismo da parte della popolazione generale. I sintomi di questa malattia (febbre alta>39 per giorni, eruzioni cutanee, dolori addominali, diarrea, irritabilità, stanchezza generale, dolori articolari e muscolari, tosse) sono poco specifici ma molto chiari per la loro intensità.
Nel caso quindi un bambino presenti febbre alta per almeno 3-4 giorni, più alcuni di questi sintomi è importante che si rivolga al proprio pediatra, che con una visita completa sarà in grado di capire se si tratta di una di queste forme.
Proprio per l’importanza di una precoce identificazione di queste forme, con il verificarsi dei primi casi (a Brescia, Bergamo e Trieste) abbiamo scritto un’allerta che, tramite il Gruppo di Studio di reumatologia pediatrica e la Società Italiana di Pediatria, è stato inviato a circa 11000 pediatri ospedalieri e del territorio.
Inoltre abbiamo iniziato una raccolta dati, nazionale, in modo da riuscire a comprendere bene le caratteristiche cliniche di questa malattia e la risposta alle terapie. Da quello che sappiamo il nostro è stato il primo allerta a livello mondiale. Nei giorni successivi allerta simili sono stati diramati anche in altre nazioni, come la Gran Bretagna, la Spagna, la Francia e gli USA.
Siamo assolutamente cosci dell’elevato carico emotivo che un coinvolgimento dei bambini nell’emergenza COVID possa determinare, soprattutto quando i casi erano in diminuzione e particolarmente in zone flagellate dall’epidemia.
Tuttavia ripetiamo che allarmismi eccessivi sono ingiustificati: si tratta di forme molto rare, immediatamente identificabili e con una terapia efficace.
Grazie allo sforzo di tutti i ricercatori sul territorio nazionale nelle prossime settimane riusciremo a capire ancor meglio questa malattia e il suo ruolo con l’infezione COVID.
Dott. Marco Cattalini
Medico Chirurgo, Specialista in Pediatria
Ricercatore Universitario, Dirigente Medico
Clinica Pediatrica, Università degli Studi di Brescia